Si parla sempre di vitamina C per aiutarci a proteggerci dai malanni di stagione e dal raffreddore, ma non tutti sanno che la vitamina D ha un ruolo molto specifico per aiutare il sistema immunitario a combattere le diverse infezioni- anche ben più gravi- che minacciano l’organismo. La vitamina D infatti non serve solo a fissare il calcio nelle ossa -una funzione che pure è fondamentale per prevenire il rachitismo nei bambini e l’osteoporosi negli anziani- ma, nella sua forma attivata, agisce con un’azione modulante nei confronti dell’infiammazione e del sistema immunitario.
Secondo il modello immunologico attuale, per poter proteggere il corpo dalla minaccia di virus e batteri i linfociti T dei globuli bianchi, che sono responsabili dell’immunità cellulo-mediata, hanno un ruolo primario perchè identificano le cellule in cui si nascondono gli invasori o le cellule malate diverse dalle sane (come quelle che potrebbero svilupparsi in un cancro) e le uccidono, ma, per poter rendersi utili, devono in primo luogo essere esposti a tracce dell’agente patogeno. Questo avviene nel momento in cui i macrofagi, sempre all’interno dei globuli bianchi, hanno già svolto la loro funzione di mangiare, o meglio, di fagocitare al loro interno gli ospiti indesiderati (virus, funghi, batteri..), presentandone i “resti” ai linfociti T che così si possono legare ai frammenti e dividersi continuamente dando luogo a centinaia di copie identiche, tutte specializzate nel riconoscere e nel distruggere lo stesso agente esterno.
Senza la vitamina D però i linfociti T non sarebbero in grado di attivarsi, reagire e combattere.
I ricercatori già un decennio fa sono riusciti a tracciare la sequenza biochimica di trasformazione di una cellula T da inattiva ad attiva: i linfociti T inattivi, o “naïve”, non contengono né un recettore per la vitamina D né una specifica molecola (la PLC-gamma1) che li rende in grado di dare una risposta antigenica specifica, mentre quando sono attivi sì, il che significa che le cellule T devono trovare nel torrente circolatorio un quantitativo sufficiente di vitamina D nella sua forma attiva (calcitriolo) per compiere la loro attività di annientamento di agenti patogeni
I risultati di queste ricerche che risalgono al 2010 si sono rivelati preziosi in tutti gli studi che riguardano il sistema immunitario e la messa a punto di nuovi vaccini e di nuovi immunosoppressori per i trapianti fino alla lotta alle malattie infettive e alle epidemie globali.
Uno studio recentissimo appena realizzato all’Università di Torino dal Prof Isaia neuroendocrinologo internista sottolinea l’importanza di avere livelli ottimali di vitamina D per prevenire i virus e per rafforzare il sistema immunitario, anche in relazione al Covid-19, riducendone il rischio di contagio, così come in tutti i casi di polmonite interstiziale. Una review del 2014, presa in considerazione dallo studioso ha esaminato le interazioni fra la vitamina D, il sistema immunitario e le patologie infettive, sottolineando l’associazione tra l’ipovitaminosi D e le infezioni respiratorie ed enteriche, attribuendo alla vitamina D la capacità di incrementare i peptidi antimicrobici (catelicidina e beta-defensine) dotati di attività antivirale e immunomodulatoria Un altro studio che ha attirato l’attenzione del ricercatore è un lavoro che mostra l’efficacia del Calcitriolo nel ridurre il danno polmonare acuto indotto nei ratti.
Inoltre, i dati preliminari raccolti in questi giorni a Torino, indicano che i pazienti ricoverati per polmonite presentano Ipovitaminosi D, una suggestione che fa pensare al ruolo attivo di questa vitamina anche nella gestione del Covid-19.
Non esistono studi definitivi per stabilire il dosaggio ottimale di vitamina D, anche se le attuali linee guida raccomandano di assumere una dose giornaliera compresa tra 25 e 50 microgrammi al giorno.
Un terzo del fabbisogno giornaliero di vitamina D proviene dall’alimentazione. I cibi in cui se ne trova di più – oltre a quelli che ne sono arricchiti a livello industriale, come molti cereali per la prima colazione – sono i pesci grassi (come salmone, sgombro e aringa), il tuorlo d’uovo e il fegato.
Tutto il resto, cioè i due terzi di quanto abbiamo necessità di avere all’interno del nostro organismo, si forma nella pelle a partire da un grasso simile al colesterolo che viene trasformato per effetto dell’esposizione ai raggi UVB. Una volta prodotta nella cute o assorbita a livello intestinale, la vitamina D passa nel sangue. Qui una proteina specifica la trasporta fino al fegato e al rene, dove viene attivata.
L’esposizione al sole rappresenta dunque un mezzo fondamentale per raggiungere i livelli desiderabili di vitamina D, sempre tenendo conto del fatto che la sua produzione è influenzata da molti fattori, come l’ora, la durata e la stagione di esposizione, l’età e il colore della pelle della persona, l’uso di creme solari.
Si stima che comunque una gran parte della popolazione abbia bassa concentrazione sanguigna di questo importante elemento, soprattutto le persone over 65 e soprattutto durante i mesi invernali, sia per la minore irradiazione solare e sia per l’esaurimento delle riserve accumulate durante l’estate: per questo motivo, nei mesi di febbraio/marzo vi è un maggiore rischio della sua carenza e forse di maggiore predisposizione alle infezioni stagionali.
In questo periodo, in cui peraltro siamo stati costretti dalla pandemia di Coronavirus a stare chiusi in casa e a non sfruttare le pur buone condizioni atmosferiche, conviene fare scorta di vitamina D e integrarla di almeno 1500 – 2000 UI al giorno, in forma di Vitamina D3, la più assimilabile e funzionale per l’organismo umano.